Pace!

07.05.2020

È possibile immaginare il turbinio di emozioni che accompagna la decisione e il momento del distacco di chi emigra dalla propria terra senza certezze, se non quella dell'inferno di guerra, fame, odio, che sta lasciando? Forse penserà che difficilmente il futuro potrà essere peggiore, e spererà di trovare un pezzetto di pace che sembra essere, misteriosamente, possesso solo di pochi.

Scritto da prof. Giuseppe Ventimiglia 

3 min.


Qualsiasi utente del vasto pianeta mediatico ha avuto modo di vedere almeno una delle immagini dei barconi carichi di migranti, degli ospedali o dei campi profughi allestiti, più o meno approssimativamente, vicino a zone di guerra. Esse riempiono porzioni di spazio nei telegiornali o sui social, suscitando reazioni molto diverse, che dipendono dal grado di coscienza civile, di cultura o di sensibilità dei fruitori.

Del fenomeno delle migrazioni noi occidentali vediamo normalmente la parte intermedia: l'approdo in Europa di chi ce l'ha fatta, o almeno il tentativo di approdare di chi è stato tratto in salvo, nonché la presenza per le strade di donne e uomini di chiara provenienza asiatica o africana, per limitarci alle più comuni. Solo di rado ci è data la possibilità di vedere la parte finale: la notizia giornalistica di un naufragio, di morti che nessuno andrà mai a visitare. O, all'opposto, il successo di chi alla fine è riuscito a costruire una nuova vita altrove e può condividere il destino di normalità della maggior parte degli esseri umani.

L'inizio invece è praticamente invisibile: quanti, come e perché hanno deciso di mettersi in viaggio? Quali emozioni, sentimenti, pensieri hanno percorso i loro cervelli nel momento della decisione e poi del distacco? Non lo sappiamo. Però possiamo provare a immaginarlo, raccogliendo il suggerimento di una poesia, di un racconto, di un verso: insomma della letteratura.

Oltre duemila anni fa il poeta latino Virgilio scrisse un intero poema, l'Eneide, per raccontare una migrazione, un esilio, che si concludeva con l'approdo in una nuova terra dove iniziare una nuova storia. La dura realtà dell'esilio l'aveva già colpito alcuni anni prima, e nel componimento che apriva le Bucoliche aveva provato a isolare proprio quel fotogramma iniziale.

A causa della guerra civile il pastore Melibeo è costretto a fuggire, portando con sé un po' di bestiame da cui spera di trarre il minimo per la sussistenza, ed incontra un altro pastore, Titiro, che invece, disteso all'ombra di un ampio faggio, si gode tranquillamente il fresco, intento a comporre una canzone d'amore con il suo flauto.

Com'è possibile, domanda Melibeo, un così diverso destino in un tale sconvolgimento? Il suo comprensibile stupore è messo a tacere dalla candida risposta di Titiro: «questa pace, Melibeo, è dono di un dio!»; un dio che egli ha conosciuto e al quale con gratitudine riserverà in futuro tutta la sua devozione, mentre Melibeo, esule per sempre, avrà in più il rammarico di non aver capito che anche a lui era stata offerta l'occasione di salvarsi.

Al contrario di Enea, non sappiamo che fine abbia fatto Melibeo, ma possiamo immaginare che nel suo difficile viaggio avrà meditato sulla misteriosa selezione in base alla quale la divinità distribuisce la pace. Così, mentre alcuni fortunati rimangono dove sono e continuano, pur nel marasma che li circonda, a vivere come sempre, altri vengono travolti perché rimangono, altri perché partono e non riescono a superare i pericoli del viaggio. E tra quelli che giungono a destinazione, solo una piccola parte, alla fine potrà dire di avercela fatta, di aver trovato una nuova migliore vita. E potrà raccontare ai nipoti: «miei cari, questa pace è dono di un dio».

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